sabato 31 dicembre 2016

Bocciato!

Ho iniziato il 2016 cenando con Ivan nella terrazza coperta di uno splendido ristorante godendo dell'invidiabile vista di Istanbul coperta di neve.
E' stato un momento davvero magico.
Ero in un posto bellissimo, in compagnia di mio marito che mi aveva regalato una sorpresa incredibile, circondata da una vista magica.

Il giorno dopo ho avuto un'esperienza sconcertante.
Abbiamo pranzato in un ristorante ugualmente fancy (mio marito è un tour operator a 5 stelle) e cercando di prendere posto pur nel modo più compito possibile, con la mia borsa ho urtato la bibita sul tavolo di una coppia con effetti a dir poco apocalittici.
La bibita si è COMPLETAMENTE rovesciata sul minuscolo ed elegante vestito della ragazza turca, inondandolo. In un film umoristico l'avrebbe inzuppato di meno.
A nulla sono valse le nostre scuse farfugliate in inglese, le offerte di aiuto, di ripagare il pranzo: la ragazza è corsa a ripulirsi senza degnarci di uno sguardo e poco dopo i due hanno ripreso a mangiare, in un silenzio gelido.
Il peggio però doveva ancora arrivare, perché poco dopo, senza preavviso, lei è scoppiata in un pianto dirotto. Hanno pagato il conto, ancora ignorandoci, e sono fuggiti letteralmente via.

Ho compreso per la prima volta in vita mia il sentimento a monte della Metamorfosi di Kafka, perché vi garantisco che il resto del mio pranzo è stato consumato da uno scarafaggio in preda all'annichilimento più profondo.

Tornata a casa, ho violato uno dei miei proponimenti più importanti, ricorrendo a mio figlio in qualità di psicologo, tanto era il mio bisogno di conforto sull'accaduto.
"Ma'" ha tagliato corto lui "mi sa che te ne devi fa' una ragione, perché se prima l'hai avvertita e dopo ti sei offerta di aiutarla hai fatto tutto quello che potevi. E' stata una reazione eccessiva: magari la bibita è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Magari stavano litigando. Magari lui la stava mollando. Magari lei c'ha dei problemi suoi che tu non sai e non saprai mai."

Non me ne sono fatta proprio una ragione. Ancora adesso ci penso e rabbrividisco. Ma posso dire che questa è la prima cosa su cui m'ha fatto riflettere quest'anno.
Non possiamo essere positivi con tutti.
Guarda caso ci sono persone con le quali interagiamo e anche se facciamo del nostro meglio, è sempre una faccenda sgradevole.
Magari hanno i loro problemi e noi non lo sappiamo. Magari per essenza non siamo fatti per interagire positivamente.
Allora la soluzione più ragionevole qual è?
Probabilmente, cercare di non nuocere scientemente, fare del proprio meglio e soprattutto cercare di ridurre all'indispensabile le interazioni con le persone problematiche.

Sono tornata a casa e ho ricevuto uno choc. Una mattina ho letto che quei bellissimi posti, quelle persone in mezzo alle quali camminavo appena quattro giorni prima erano state violate da un attentato, feriti da una bomba.
Ho visto le immagini, ho pianto.
Non sapevo che sarebbe stato un leitmotif del 2016.
Uno dei miei propositi interiori era quello di legarmi di più alle persone, curare i legami, prendermele a cuore.
Non sapevo che avrei sperimentato nel corso dell'intero anno le conseguenze della sofferenza per la loro stessa sofferenza.

Il 2016 è stato l'anno del contrasto netto fra la felicità perfetta, il senso di forza, di calore, di gioia che ha saputo darmi la mia famiglia e la mia casa e la preoccupazione e la sofferenza che ho condiviso con persone a me care, con amici che scoprendo ho preso a cuore, ma con i quali ho condiviso un anno a volte veramente molto difficile.
Ho compreso che se i sentimenti che uniscono sono reali, anche il dolore condiviso è reale e non ti abbandona mai. Per fortuna, questa regola vale anche per la capacità di farsi coraggio a vicenda.
In certi legami non si può barare.

Quindi 2016 ti boccio, perché hai fatto soffrire i miei amici.
Ti avrei strabocciato in ogni caso fin da subito, perché m'hai portato via David.
Nella storia nella mia vita sarai per sempre un'annataccia.

Vediamo se ti riprendi almeno un po' col vino.

E auguro a tutti, amici e non, persone equilibrate o problematiche (così non creano problemi agli altri) che il prossimo anno potremo scrivere: 2017, che anno favoloso sei stato!

lunedì 12 dicembre 2016

La nobile arte del volo onirico

Credo (anzi, spero) che ognuno di noi abbia uno o più piccoli segreti positivi, quelle candide fonti di piacere tutte nostre che ci accompagnano intimamente nella vita quotidiana e ci fanno sorridere da soli.
Io fra gli altri ne ho uno che, a quanto ne so, è abbastanza comune.

Io sogno di volare.

Ora, poiché è regola universale che ad ogni piacere si accompagni invariabilmente qualcuno che cerca di rovinartelo, prego con ferma cortesia chiunque di non unirsi alla schiera dei noiosi che letta questa affermazione, parte con uno dei dischi rigati della banalità: "Sognare di volare significa...", "E' perché vuoi...", "Jung dice...", "Freud dice...", fino a giungere giù giù fino alla mala bolgia della stupidità: "Sognare di volare, giocati il..."

Senza neppure voler commentare alcune di queste reazioni popolari, io mi chiedo: perché la gente deve per forza cercare un significato per tutto? 
Una cosa bella non può essere bella di per sé?
Qual è il problema nel godersela e basta?

Sta di fatto che io sogno di volare da anni e senza chiedermene il significato o il perché, mi diverto immensamente a farlo.

All'inizio, lo ammetto, ero una schiappa.

Ricordo lo stupore con cui mi sono staccata da terra e ho cominciato ad avanzare levitando solo a pochi centimetri da terra.

Il mondo onirico nel quale ho questa facoltà è sempre lo stesso, coerente a sé stesso e diverso dalla realtà. Prevale il bianco, il verde e l'azzurro.
Ricordo che all'inizio procedevo malamente, sentendo la punta dei miei piedi sfiorare le distese di trifogli bianchi lungo cui avanzavo. Mi abbassavo appena mi distraevo, mi rialzavo annaspando; mi direzionavo con le braccia come nuotando, in maniera decisamente maldestra.

Negli anni mi sono allenata molto e facendo pratica ho affinato la tecnica.
Per diverso tempo ho continuato a procedere a pochi centimetri da terra, ma in modo più ordinato e scorrevole, e pian piano sono riuscita a curvare senza dare spettacolo.
Nel mondo che sogno ci sono altri esseri umani, tutti vestiti di bianco. Sembrano divertiti e benevoli di fronte alle mie attività di volo, ma non saprei dire se anche loro ne siano in grado: i miei tentativi mi assorbono completamente. 
Il fatto è che quando mi trovo in uno di questi sogni, mi rendo immediatamente conto di essere tornata , e mi dedico immediatamente a sfruttare l'occasione per esercitarmi a volare.
Un altro aspetto non da poco, è che in questi sogni oltre la mia competenza nel volo nulla è mai variato, ovvero tutti io compresa siamo giovani, o meglio: il tempo non esiste.
Esiste solo la consapevolezza che il sogno finirà col risveglio, cosicché sfrutto ogni momento per far pratica.

Negli anni ho preso sempre più quota. 
Ho compreso di avere come una sorta di giroscopio al centro del mio petto e mi ci affido, mi lascio guidare. 
L'ultima volta ho fatto un esperimento e ho provato, con successo, a trasportare una delle persone lì presenti su con me in volo. La gravità non dà alcun problema: ci si solleva a prescindere dal peso. Invece ho visto che alzandosi si incontrano correnti ascensionali che ti respingono da alcuni punti.
E' un divertimento pazzesco.

Come sport, presenta diversi aspetti positivi. Ad esempio, l'attrezzatura è a costo zero. Bene o male, tutti hanno un letto o un posto dove dormire. 

Certo, ha anche aspetti negativi.
Socialmente, è poco spendibile. Oggettivamente non puoi presentarti il lunedì mattina in ufficio raggiante e se qualcuno ti chiede il perché rispondere: "Guarda, sabato notte non c'era una nuvola, mi sono fatta una volata spettacolare!"

Inoltre, a quanto ne so, non credo sia utile come esercizio fisico.

E' praticamente impossibile trovare delle fonti per la formazione teorica, quindi ti tocca imparare tutto da solo con la pratica (anche se googlando una guida l'ho trovata: Come volare nei tuoi sogni, ma non è sulla tecnica).

Infine, non è decisamente uno sport di gruppo.
Non puoi invitare i tuoi amici: "Ehi, ho fissato un campo di volo onirico stanotte! Chi viene, che si vola in formazione?"

Così volo da sola.
Ma sapeste che bello.

venerdì 18 novembre 2016

Narciso e il suo Specchio

E' venerdì sera.
Avrei potuto dedicarmi ad una maratona di uno dei period drama che a me piacciono tanto, o dissipare il tempo in una maniera analoga, ma poi ho pensato di scrivere qualcosa, anche perché dopo questo periodo di inattività perdurare nell'ozio o anche risolvermi a rottamare tutta la faccenda del blog mi pare quantomeno poco riguardoso verso quei quattro gatti coraggiosi che affettuosissimamente continuano a leggermi.

Ieri sera parlando con mio figlio psicologo, ho appreso una cosa che mi ha particolarmente colpito.
Mi ha detto che redigendo l'ultima edizione del DSM è stata avanzata (provocatoriamente) la proposta di eliminare il Disturbo Narcisistico di Personalità dalle patologie trattate come tali, fondamentalmente perché ormai l'alta percentuale di narcisisti in circolazione potrebbe portare a considerare questo quadro psicologico come la norma, più che come una condizione patologica.

Per essere più esatti, è stato argomentato che, come in passato alcuni modelli culturali hanno di fatto promosso alcune patologie (es.: la schizofrenia degli sciamani, che "produceva" delle guide spirituali), la società moderna è premiante verso il Narcisismo.

L'ultimo dato trasmessomi dalla mia dotta prole che probabilmente per molti suonerà ovvio, ma che almeno per me è risultato illuminante, è che il narcisismo è causato dall'insicurezza.

Ora, molti sbuffando penseranno: "Sei diventata una noiosa e prevedibile radical chic", ma io non posso negare di aver pensato subito a milioni di bambine con le loro Barbie in mano: con questi vitini da vespa, maggiorate, questi fisici irraggiungibili, il trucco mai sbavato, perennemente strafighe.

Devo essere chiara? Non mi frega niente di dire cose già dette e ovvie.
Per quanto mi riguarda e per ciò che ho vissuto direttamente, sono convinta che viviamo in un mondo che fin dalla nascita ci manda un messaggio continuo: sii bello, o schiatta.
Già i bambini belli sono trattati meglio.
Anzi, il messaggio fondamentale è: anche se la natura è stata matrigna con te e t'ha fatto più che giglio carciofo, fai lo stesso di tutto per apparire al meglio. Compra roba. Buy More. Pinzettati, lustrati, lisciati, siliconati: arrangiati. Spendi tutto quello che puoi nel tentativo.

Ma al di là di tutti i soldi spesi per cose orribili che non mi interessa affatto stare qui a giudicare nel dettaglio, a mio avviso la questione del narcisismo è ben più ampia.

Apritevi banalmente la vecchia wiki e andatevi a leggere i tratti tipici del narcisismo.
Per comodità li copincollo:
  • Un'evidente concentrazione su se stessi negli scambi interpersonali;
  • Problemi nel mantenere relazioni soddisfacenti;
  • Mancanza di consapevolezza psicologica (vedi anche insightegosintonico);
  • Difficoltà con l'empatia;
  • Problemi nel distinguere se stessi dagli altri;
  • Ipersensibilità a qualsiasi insulto o insulto immaginato;
  • Vulnerabilità alla vergogna oppure al senso di colpa;
  • Linguaggio del corpo altezzoso;
  • Adulazione nei confronti delle persone che li ammirano e li rafforzano;
  • Il detestare coloro che non li ammirano;
  • L'uso di altre persone senza considerare il prezzo di tale azione;
  • Il fingere di essere più importanti di quanto lo siano realmente;
  • Il vantarsi (sottilmente ma con insistenza) dei loro risultati e l'esagerarli;
  • L'affermare di essere un "esperto" in molte cose;
  • Incapacità di vedere il mondo dal punto di vista degli altri;

Check, check, check. Tutti a pensare: questo è Tizio, questo è Caio.
Io ho pensato l'unica cosa che già sapevo: che per anni io sono stata una narcisista da manuale.
Il fatto che abbia pensato subito a me e a nessun altro già dovrebbe bastare, d'altra parte.

Sono stata per tantissimi anni altezzosa, fashion addicted, vanitosa, dipendente da chi nutriva la mia vanità, schiva, consapevole solo della mia incapacità di sostenere una relazione continuativa.

Il problema nel valutare il narcisismo, è che forse si pensa più agli aspetti irritanti dell'impatto sugli altri (in pratica quanto risultano antipatici i narcisisti), ma si considera di meno com'è globalmente un narcisista, il che è espresso perfettamente dal mito di Narciso.

Narciso è innamorato a tal punto della propria immagine da non poter distogliere il proprio sguardo dallo specchio d'acqua nel quale è il proprio riflesso, finché non vi cade dentro e muore.

Un narcisista è una persona insicura. Una persona che se magari fa in modo di sembrare agli altri altero e inarrivabile, magari dentro alla prima contrarietà si sente andare in pezzi come un meraviglioso lampadario di cristallo precipitato da venti metri, e corre a spendere un capitale in trucchi e vestiti (e accessori, non ci dimentichiamo gli accessori) per raggiungere una perfezione a cui non arriverà mai.

Come ho fatto per anni io.

Finché non mi è successa una cosa bellissima.

C'è stato un momento magico nella mia vita nel quale tutto è sembrato crollarmi addosso.

Prima di allora, mi sentivo onnipotente. Mi mettevo in testa una cosa e con testardaggine, sprezzo degli ostacoli e spirito guascone la ottenevo.
Improvvisamente però, tutto si è inceppato. Le cose non mi riuscivano più così bene né facilmente.
Le persone intorno a me per motivi diversi sembravano distanti e deluse da me, non apparivano più minimamente soggiogate dal mio fascino.

Ero estremamente provata, nel corpo e nello spirito.
Ho cominciato, com'è inevitabile, ad invecchiare. Per la prima volta ho sperimentato con stupore quella che credo sia un'esperienza comune alle donne di mezz'età, per cui agli uomini non si illumina più lo sguardo quando ti incontrano, ma smettono di guardarti. Diventi semplicemente invisibile.

Lì per lì ci sono stata malissimo.
Ho avuto la canonica crisi di mezz'età.
Pensavo: oddio, ho chiuso i giochi, e ora? Se tutto va bene mi resta qualche decennio di aspetto di merda, problemi geriatrici più o meno invalidanti e telefonate per obbligare i miei figli a pranzare con noi la domenica. Ho fatto anche la cazzata di sposare un uomo più giovane: ora mi tradirà, scapperà con una squinzia e mi lascerà da sola, vecchia con tre gatte e il mutuo da pagare (sì, lo so: sono il solito raggio di sole).

Sono stata tanto, tanto triste.
Poi ancora triste. E poi ancora.
Poi un giorno mi sono stancata.
Mi sono guardata allo specchio e mi sono detta:
"Bhe, già che è così e non puoi proprio evitarlo, magari puoi anche smetterla di fare la stronza."

Smettendo di preoccuparmi della terribile ingiustizia occorsami, mi sono dedicata ad altro.

Magicamente, tutto è cominciato ad andare  meglio.

Non è che io abbia smesso di amarmi, capiamoci. E' che non ho più quel rapporto d'amore ossessivo con me. Diciamo che ho deciso di prendermi una pausa e frequentare altre persone.

Così ho avuto modo di accorgermi che ad esempio mio marito in effetti mi amava, e anche parecchio. Magari aveva anche lui qualche problema, come ad esempio il fatto di aver appena perso entrambi i genitori, una cosa che nel momento in cui ho distolto tutta l'attenzione da me stessa ho avuto modo di afferrare compiutamente. Il fatto di aver avuto la pazienza di aspettarmi, nonostante tutto, me l'ha fatto apprezzare in un modo che non riesco ad esprimere totalmente per quanto è intenso. Posso solo dire che lui rappresenta la scelta migliore (e forse anche la più fortunata) della mia vita.

Sono riuscita a farmi delle amiche. Ovvero: avevo già delle amiche ovviamente, alle quali voglio anche molto bene, ma queste sono persone che frequento regolarmente. Non mi era mai successo prima.

E poi sì, sono una donna di mezz'età. Quest'estate ho dedicato due giorni (faticosissimi) per liberarmi di buoni due terzi dei miei vestiti. Un conto è avere il sospetto che sei stata un po' pazza con lo shopping, un altro è affrontare il tuo armadio ed averne la certezza.
Adesso so per certo che non voglio mai più avere cose inutili.

Dubito che andrò mai in giro in tuta a ginnastica e ricciolini "in ordine" ed è estremamente improbabile che smetterò mai di curare me stessa o truccarmi, ma ho definitivamente smesso di travestirmi per essere un personaggio incredibile. Durante la crisi ho processato a fatica il fatto di non essere né una geisha né una principessa di un qualche oscuro pianeta, quindi ho dato via kimono e vestiti alieni per accogliere il fatto che principi come "eleganza" e "agio" sono del tutto accettabili per vestirsi la mattina.
Non so se tutte le donne giovani provano ciò che provavo io, ma vorrei davvero poter condividere l'assenza di ansia che sperimento ora riguardo me stessa e il mio aspetto, il senso di libertà. la sicurezza.

Anche se alla prima occhiata valutativa risulto invisibile per il genere maschile, successivamente ho sperimentato qualcosa che non mi era mai capitato di vedere: la simpatia.
Non per le battute di spirito: quella è sempre stata simpatia facile da ottenere, ma reale, guadagnata per ciò che faccio.

Sinceramente? Credo di aver cominciato a parlare con gli altri imitando i discorsi di interesse reciproco e aver finito per interessarmi davvero a loro.
D'altra parte, se ti si libera tanta attenzione che prima rivolgevi esclusivamente a te stessa, in qualche modo la devi riallocare.

Insomma, oggi sono infinitamente più felice. Ah, saperlo prima.
Ovviamente, passo molto ma molto meno tempo di prima davanti allo specchio.
Tempo libero guadagnato che ultimamente trascorro ad esempio cucinando. Mentre canto.
O facendo lunghe passeggiate con mio marito. Tanto ora ho delle scarpe comode.

venerdì 2 settembre 2016

Bene Gesserit 4/4

Alla fine forse ce l'ho fatta: eccomi qua e dopo tante riflessioni, ripensamenti, serie considerazioni sul lasciar perdere questo post e già che c'eravamo il blog in generale, ecco che mi accingo ad affrontare un argomento che ho sempre considerato spassionatamente una via di mezzo fra materia canonica da psicanalisi e pura pornografia verbale.
In questo post parlerò di mia Madre Giulia, morta a 53 anni nel 1994.

Così con le informazioni essenziali siamo già a posto.

Ovviamente è difficile risultare sintetici od obiettivi su un argomento del genere.

Mia Madre l'ho scoperta tardi e l'ho persa presto.

Credo di aver scelto come figure genitoriali i miei nonni, da piccola. Fondata o meno, per anni in seguito ho coltivato quest'idea negando ai miei genitori ogni principio di autorità.
Non ho mai avuto un buon rapporto con mio padre: lui preferiva palesemente mia sorella minore e francamente mi sembrava che provasse per me se non antipatia, una specie di competitività. Più che una figlia, mi sentivo una sorta di strana sorella minore. Da adulta, aggiungerei che l'aspetto negativo di questa situazione è che si trattava di una convinzione, un dato di fatto indolore. Di fatto, o ci litigavo o quando ero di buon umore lo evitavo.

Con mia madre era diverso. Lei non mi dispiaceva. Ma mi dispiaceva per lei.
Ancora adesso ogni volta che penso a lei io provo quella stessa identica sensazione di dispiacere, e questo non solo a causa della sua scomparsa, ma per tutto quanto. La sua morte precoce mi sembra ancora oggi l'epilogo ineluttabile della sua vita, come mi sembrò l'alba del giorno di giugno in cui ricevetti la comunicazione che era stata trovata senza vita nel proprio letto. "Ovvio." Pensai d'istinto, a prescindere dal fatto che era gravemente malata.

Mia madre mi è sempre sembrata assurdamente fragile.
Era una donna piccola e minuta, spessissimo malata.
Si ammazzava di lavoro tutta la settimana e quasi tutti i week end si metteva a letto stroncata da emicranie orribili.
Somatizzava ogni difficoltà, ogni problema, ogni offesa. Ha sofferto per tantissime patologie, interventi, due tumori, l'ultimo dei quali  l'ha uccisa.

Mia madre era incapace di farsi una ragione del mondo.
Era una sognatrice: il suo paradiso su questa terra era fatto di musica, fiori e di tutti i libri che aveva letto; l'inferno era la villania della realtà.
Viveva per la bellezza e la perfezione e si scontrava di continuo con la loro irraggiungibilità.
Era debole e condizionabile. Ancora oggi vorrei poterla difendere dalla miriade di felloni che si sono approfittati della sua buona fede, imbrogliandola e facendola soffrire.
Avrebbe voluto vivere in eden cortese popolato da anime nobili come quelle dei cavalieri sui quali aveva speso anni di letture e studi; quando poi veniva trascinata bruscamente nel fango della delusione, reagiva con un furore e dolore che la consumavano.

All'epoca mi limitavo a provare una sorta di sconforto.

"Cosa te ne frega di quello che ha detto X? Perché dovresti fare bella figura con lui/lei?"
"E' davvero un tuo problema? Devi pensare sempre a risolvere tutto tu?"
"Non è reciproco rispetto, è paura di discutere."
"Io penso che tu sia in grado di fare tutto. Fai un lavoro impegnativo, quindi puoi usare il cervello anche per fare altre cose."

E soprattutto la più gettonata, universalmente:

"Te e papà non restate insieme per noi, è che avete paura di separarvi!"

Eppure, mentre io facevo da madre a mia madre come in una brutta sit-com, con le sicurezze ferree e la presunzione dell'adolescenza, in qualche modo è accaduto che lei sia riuscita a diventare mia Madre.
Mentre io mi spendevo in fervorini, lei mi plasmava con l'esempio silenzioso.

Innanzitutto, deponendo in me i semi di una pianta destinata ad estirpare le erbacce dell'allora mio connaturato e rigoglioso fancazzismo.
Mia Madre era una lavoratrice instancabile, precisa e coscienziosa, sia in azienda che a casa.
Credeva nel valore della competenza, della cultura e della dedizione.
Anni dopo, quando nella stessa esattezza ho trovato finalmente la serenità data dalla consapevolezza di aver soddisfatto il proprio senso del dovere, la soddisfazione della compiutezza, dell'ordine, di aver fatto del proprio meglio, ho ritrovato Lei, come una benedizione.

Mia Madre era perfezionista, ovvero ricercava perfezione e bellezza.
Forse oggi farebbe una discreta fatica a riconoscere il suo stile, dal momento che lei usciva solo in tailleurs impeccabili e scarpe fatte su misura, in una figlia che alla sua stessa età gira in jeans grigi e stivaletti da elfo in similpelle, ma è grazie a lei che la mia vita è costellata di piccole inestimabili gioie contemplative, fatte anche solo del sentore di un profumo o della simmetria delle passiflore che fioriscono sul mio balcone.

Mia Madre era generosa. E' vero che si indignava ferocemente di fronte alla malafede e ai comportamenti che reputava meschini (così come succede a me, che ho ereditato la sua intemperanza ovvero incazzosità, ammettiamolo, senza neppure i suoi limiti fisici), ma è altrettanto vero che non l'ho mai sentita parlare meschinamente di qualcuno, cosa di cui le sarò eternamente grata in questo oceano di trivialità, ed è stata lei ad insegnarmi uno dei precetti che reputo più preziosi per la mia vita: "Difendi gli innocenti."
Lei adorava i giovani: le piaceva dedicarcisi ed insegnare ciò che poteva, trasmettere valore ed aiutare più che poteva, così come cercava, sostanzialmente, di rendersi sempre utile.
E questo è uno dei pochi precetti religiosi che io sento di aver ricevuto e rispetto.

L'ultima volta che ci ho parlato è stato al telefono, la sera prima che morisse, e mi ricordo un'ultima frase.
"Avrei voluto passare più tempo con voi."
Anch'io avrei voluto passare più tempo con lei. Avrei voluto che mi vedesse diventare felice e io vedere felice lei. 

Non ho mai smesso di parlare con lei, nei dialoghi interiori che penso accompagnino per sempre tutti quelli che hanno perso qualcuno di importante.
Ogni volta che sono riuscita a fare qualcuna delle cose che avrei voluto che lei facesse per sé.
Ogni volta che ho raggiunto un risultato di cui sono stata fiera.
Ogni volta che sono felice.
Le dico: "Guarda Mamma, questo è anche per te."
Sono certa che lei sarebbe felice per me. E penso che questa certezza sia la cosa migliore che possa lasciarti un genitore.

lunedì 4 luglio 2016

Bene Gesserit 3/4

...che poi diciamocelo: a me 'sto titolo manco piace.
Dune è una parte intoccabile del mio immaginario adolescenziale (anche se finire il libro è stata un'impresa epica paragonabile alla scalata del K2 con scarpette di vernice infiocchettate), però le Bene Gesserit in fondo le ho sempre trovate un po' lugubri e mafiose, per quanto dotate di un innegabile potere.
E' la Litania contro la Paura, il motivo principale per il quale le ho scelte quale simbolo delle Donne Che Hanno Influenzato La Mia Vita, quella che ho tenuto appena in casa mia in bella vista per anni.

Ma bando alle ciance!
Siccome col caldo è arrivata la pigrizia e con la pigrizia è calata la voglia già esigua di scrivere, per questo post baro immondamente copincollando qui di seguito il racconto che dedicai quando ero giovine (per cui diciamo alcuni anni fa) alla terza Donna Che Ha Influenzato La Mia Vita, ovvero mia Nonna Maria.

Non ci crederete, ma si intitolava:

NONNA MARIA

Nonna Maria. Mai due parole come queste mi sono sembrate tanto lineari e nello stesso tempo tanto inadeguate per definire quella che è, con un’evidenza sconcertante, proprio mia nonna, la mia irriducibile nonnina ultranovantenne.
Per un curioso scambio del destino, da qualche anno abita dove sono nata io, proprio sopra la fornace di Valle Aurelia.
Ed io, mi spiega, con sua somma soddisfazione ora vivo dove lei più si augurava per me, vicina al suo amato Borgo.
“Ci andassero le tue zie in quei bei pensionati fuori porta! Io sono nata col cupolone negli occhi, e così voglio morire, potendolo guardare tutti i giorni.” mi dice mostrandomi l’invidiabile panorama di San Pietro che si gode dal suo balcone.
Piccola, indomita nonna Maria: le sue parole, i suoi ricordi, a volte penso, hanno contribuito alla mia crescita metabolizzandosi prepotentemente in me non meno degli un po’ grevi, ma saporosi ed irresistibili piatti romaneschi che fin dalla più tenera infanzia mi ammanniva, per la disperazione dei miei genitori salutisti.
“A Roma non si rinuncia. A Castello non ci rinuncia, chi c’è nato come me. Che poi io veramente sono nata a Portico D’Ottavia,” si schermisce “ma a due anni ero già a Borgo. E borghiciana sono e morirò.”
“D’altra parte, Borgo l’abbiamo fatto anche noi: avrai studiato certo di Francesco Mochi, il grande scultore. Lo conosci, no?”
Lo conosco, lo conosco, sospiro fra me. E anche se qualche “oscuro” critico d’arte come per dire l’Argan o Zeri se ne fosse dimenticato, come avrei potuto farlo io, con Maria che me ne parla dalla nascita? Maria: così sono abituata a chiamarla fra me, semplicemente, in un rapporto nel quale il carattere e la sua estrema lucidità rifiutano ogni condiscendenza, qualsiasi senso di protezione. Non nonnina, ma Maria: come un’interlocutrice alla pari; al di là del tempo.
“Francesco Mochi fu un grandissimo scultore, il più grande del suo tempo. Va’ a vedere a San Pietro, va’ a vedere la statua della Veronica, quant’è bella! Se non fosse stato per quel ruffiano del Bernini…”
Trasecolo. Ma nonna, il Bernini…
“Lascia sta’.” mi zittisce lei “Se non era per lui, che stava sempre in giro ad arruffianarsi il Papa, a quest’ora il colonnato era del Mochi. Altro che!”
Nella sua espressione accigliata, come spesso accade, c’è l’eco di antiche liti, risentimenti secolari. D’altra parte la famiglia di Maria, la mia famiglia, sembra destinata ad avere dei bau bau eccellenti. Un altro è nientedimeno che Giolitti.
“Quel magnaccia” lo etichetta risoluta lei “ha ammazzato nonno, lo sai, no?”
Sì: un altro Mochi, Giovanni, il nonno di Maria.
“Che è stato lui a costruire ai Prati di Castello; hai visto a Piazza Risorgimento quella bella Madonnella all’angolo? Quella di mosaico? Quella l’ha fatta mettere lui. Era religiosissimo…e ricco e stimato. Finchè Giolitti non gli mangiò tutti i soldi, con quella storia della Banca Romana, e lo rovinò.”
Rovinato, sì: e conosco pure il resto della storia. Di come tirò avanti qualche altro anno, schiacciato dalla vergogna di un codice d’onore di un tempo che fu, finché in una tiepida mattina di primavera non andò al Verano, e lì sulla tomba dei suoi rimase a pregare a lungo.
“E poi si prese il sublimato. Ci avvertirono dal San Giovanni, con uno dei primi telefoni a Roma, sai, noi ce l’avevamo” ricorda Maria con un’incongrua punta d’orgoglio “ma non c’era più niente da fare: gli aveva bruciato le budella, povero nonno.”
Una lacrima dopo quasi un secolo, e dopo una rapida preghiera per una povera anima e forse anche un’ultima segreta maledizione per quello che fu il capro espiatorio di uno dei primi scandali economici della storia contemporanea, Maria come è nel suo stile scaccia da sé i ricordi tristi. E mi mostra una bella collana d’ambra.
“Bella, vero? L’ho presa da Nardeo. Era accanto a Bocconcelli, la più bella galleria d’Arte Sacra che c’era a Borgo Nuovo…”
Un momento, un momento: cerco di capire. Borgo Nuovo, Borgo Vecchio…
“Stai parlando della Spina di Borgo?”
“Certo! Che altro?” si spazientisce lei “Borgo Nuovo, la parte a destra, era la più elegante, tutta a portici. C’era Carnevali, uno dei primi fotografi di Roma, quello che ha fatto la foto quando mi sono sposata…Anche se mica è stato tanto bravo: lì sto proprio male, ti pare?” aggiunge con un pizzico di civetteria.
Io, che conservo come tutti i suoi nipoti una copia della famigerata fotografia, non posso darle torto, anche se segretamente penso che quel marito palesemente più giovane di lei, alto, biondo e con gli occhi verdi, bello come un divo del cinema muto, la dica lunga sullo spirito di questa sposa rotondetta, alta sì e no un metro e mezzo, e costantemente adorata per quasi mezzo secolo.
“Molti fra i negozianti erano amici di famiglia” prosegue Maria “Rosa Zanazzio era amica mia, e Bice Fallani, delle Lanerie…Bocconcelli poi faceva le Madonne ed i rosari più belli di Roma…”
Gli occhi di Maria, nel raccontare, brillano d’entusiasmo come dovevano brillare quelli di una ragazzina di fronte a quel lussuoso ed invitante campionario. Eppure per me, sua nipote, è già Storia quel pomeriggio d’inverno in cui…
“…il Cardinal Borgoncini irruppe nell’Oratorio dove facevamo le prove per il coro, ed entusiasta annunciò: - “Grazie alle preghiere vostre e nostre, la Conciliazione si farà!”-
“Co’ le mia non de certo” replicò mentalmente Maria, contravvenendo per la stizza al divieto per le educande di esprimersi in dialetto.
Ma si fece, e per Maria iniziarono gli anni dell’esilio. Un esilio relativo, a ridosso del suo amato Borgo, prima al numero undici della Via Aurelia, poi al numero quarantuno, dopo che
“…a Mussolini gl’avevano detto che il nostro palazzo aveva una struttura tutta in ferro, e allora buttò giù pure quello, per recuperare il metallo per la Patria…ce c’aveva in testa, io non lo so.”
Il numero quarantuno di Via Aurelia, che io ho fatto in tempo a visitare, presentò però un imprevisto e prezioso vantaggio: confinava con il territorio Vaticano, esattamente dove poi sorse la Sala Nervi.
Così, “quando i Tedeschi scendevano giù da Villa Abamelek, dove stavano loro, per i rastrellamenti, tutti gli uomini di casa correvano da noi, e buttandosi giù da un certo finestrone che c’avevamo in cortile stavano nel territorio del Papa, e non li potevano più prendere.”
Ferma a Porta Cavalleggeri, Maria guardava passare le truppe, i carri armati con quella rabbiosa impotenza che molti devono aver provato in quegli anni.
“Non potevano bombardare il Vaticano, almeno così dicevano, ma Borgo e tutto il resto sì. E c’avevano pure mira: sai come lo chiamavamo l’aereo che arrivava tutti i giorni alle undici?” mi chiede “Spizzacantoni!”
Sarà senz’altro per campanilismo, ma un certo spirito romano non manca mai di provocarmi un’ orgogliosa e frenata ammirazione.
“Non c’era nessuno di noi che avesse un vetro intero, e tutte le persiane bruciate. Ogni giorno arrivavano convogli coi feriti del fronte di Frascati, diretti al Santo Spirito, al Fatebenefratelli ed agli altri ospedali. Bisognava stare attenti.”
A cosa?
“A non scivolare: lasciavano una striscia di sangue per terra…Una volta dalla finestra ne vidi uno, che penzolava fuori: c’aveva gli occhi aperti, sembrava mi guardasse. Era giovane, e così bello, Robbè…non sembrava neppure morto.”
Chiude gli occhi appena, sospira in quel modo di commuoversi appena accennato di chi ne ha viste tante.
“Durante la guerra era proprio brutto,” ammette “e dopo coi tedeschi era pure peggio.”
Finché un giorno:
“Dovevo andare a prendere del cibo da una parente che c’aveva un orto in campagna, ma fuori c’era una retata. Le altre non volevano che uscissi, ma io avevo tua madre e le tue zie piccole, e avevamo fame. Così andai: arrivata nel cortile me li trovai davanti. Mio cognato, il Sor Cesare, c’aveva un’officina di meccanico, e quelli stavano lì perché volevano che gli riparasse un carro…hai voglia a spiegargli che non c’erano più uomini per lavorare, quelli volevano fare un macello…Erano proprio carristi,” precisa “me l’ha spiegato dopo tuo nonno: avevano una divisa blu con una certa striscetta al collo e ai polsi…Ce n’era uno, doveva essere il comandante. M’è venuto di fronte, e m’ha chiesto come mi chiamavo. Maria, ho risposto. E quello giù, con una risata che, Robbe’, ti faceva gelare le ossa. ‘Maria: cattolica!” ha osservato sprezzante.
Un attimo di pausa, uno sguardo fisso agli occhi di lei.
“Allora” disse “per questo tu non hai paura di morire?”
Fu qualcosa in quella beffa che dovette ridare coraggio a Maria. Che di colpo smise di tremare, e sostenne il suo sguardo, ferma.
“Paura di morire?” ribatté “Io sono una madre, comandante. C’ho una bambina di due mesi: prende ancora il latte, e se muoio, muore pure lei.”
A quelle parole il soldato ritornò serio.
“Io Hans.” mormorò. Di colpo si frugò nella tasca della divisa.
Porse a Maria la foto di una donna pressappoco della sua stessa età: in braccio teneva un bambino.
“Mia moglie, mio figlio.” spiegò “Bombardamenti, a Berlino: morti.”
“Mi dispiace. Davvero.” replicò contrita Maria, restituendogliela. Poi si rianimò.
“Tanto qui semo tutti morti. Quanto ci vuo’? Una settimana, un mese?”
Era sincera, e stremata: dalla fame, dallo sforzo continuo di soffocare l’angoscia.
Hans la fissava.
« No.” ribattè piano ”Tutto finito.”
La sua voce si abbassò ancora di più.
“Stanotte: noi andare via.”
Maria non parve affatto rassicurata.
“Se voi andare via,” osservò replicando l’italiano approssimativo dell’altro “ci tagliate tutto: l’acqua, la luce. E poi ci fate salta’ per aria, no?”
In quel momento un soldato si avvicinò, portando in mano un fiasco ed un bicchiere pieno di vino rosso. Dopo un rigido saluto militare, Hans lo tracannò d’un fiato. Di nuovo rise. Maria lo fissava immobile: nel contegno di quell’uomo, come del resto in quello dei suoi compagni d’armi, c’era la stessa spietatezza marziale e sgangherata insieme, che acuiva la sua paura.
“No!” rise l’altro “Finito: tutto finito!” esclamò “Dove abiti tu?”
“Qui vicino.” fece lei, vaga.
“Ecco: stanotte tu sentire. Io passo sotto casa tua con i miei carri, e poi andare via. Via!”
Di nuovo la salutò, scattando sull’attenti.
“Addio,Maria, cattolica!”
Maria non se lo fece ripetere due volte.
Quella sera su addormentò contenta di essere scampata ad un pericolo che per molti altri si era rivelato fatale, ma di fatto senza neppure tenere in gran conto ciò che aveva sentito, un’ennesima giravolta in quell’altalena di speranze frustrate che durava da quasi un anno, ormai.
Ma alle tre di notte un rumore la svegliò. Tutta la famiglia corse alle finestre: una colonna di carri armati rombava sopra il pavè.
In piedi, sull’attenti sul primo mezzo, lo sguardo irrigidito all’orizzonte: nel buio Maria riconobbe Hans.
Passavano sotto le loro finestre; sparirono nell’oscurità. L’eccitazione non permise a nessuno di riaddormentarsi: sembrava che tutta Roma aspettasse assieme a loro, in silenzio. Dopo mezz’ora un altro rombo li fece trasalire.
Un’altra esigua colonna: di nuovo Hans, ma Maria rivedendolo non se ne stupì. Anni di esperienza di regime avevano abituato lei come tutti a quell’espediente, che consisteva nel far passare uomini, aerei e mezzi pù e più volte in un’ampia traiettoria circolare, in un millantato spiegamento di forze.
Apparivano da Porta Cavalleggeri, sfilavano per Borgo come in un tardivo sberleffo all’autorità spirituale di Roma, poi risalendo l’Aurelia sparivano verso la campagna.
Ancora ed ancora, ma alle cinque tutto tacque. Dietro le finestre il popolo borghiciano vegliava, sospeso nel silenzio. Ad un tratto, una voce:
“E’ finita!” urlò “Partigiani, venite fora: li tedeschi so’ iti a mori’ ammazzati!”
Un coro di improperi la sovrastò: tutti avevano riconosciuto un certo Mario, sospetta spia della Milizia, ed in effetti quello era stato un trucco già ampiamente sfruttato nei mesi passati per rastrellare gli uomini della Resistenza. Ma fra le voci, Maria ne riconobbe una, femminile, che riuscì a sovrastare le altre.
Era Ada, la fruttarola, che lei conosceva da bambina.
“No! E’ vero, è tutto vero!” piangeva di gioia la donna, trafelata “So’ ita ai Mercati Generali: ho visto gli americani! Ariveno: gli americani ariveno!”
E di fronte all’autorità di quel responso, la gioia di Borgo esplose.
Era il quattro giugno del quarantaquattro.
Fu la fine di un incubo, come questa è la fine del racconto di Maria. Anche se non l’ammetterebbe mai, parlare l’ha stancata, ed anche l’aria sul suo balcone comincia a rinfrescare. Prima di rientrare fissiamo ancora insieme, sospeso nell’imbrunire, il “cupolone”.
“Quella è casa mia, Robbe’.” mi ripete Maria “La casa più bella del mondo. Ed è anche la tua: devi ricordartelo sempre, ed esserne felice. Io lo sono: e tu no?”Ci vuole coraggio per ammettere di sentirsi felici. Molto, nel decimo decennio della propria vita, quando la vita è per la massima parte prescrizioni mediche, ed attesa; abbastanza a trent’anni, quando ad una consapevolezza da poco acquisita già si aggiunge una prudenza scaramantica. Ma oggi, una volta di più, devo al coraggio e alla forza di Maria una briciola della preziosa materia che è la felicità.

E per chiudere con parole di oggi, spero che questo spieghi, tra gli altri l'esistenza della donnina interiore, decisamente capitolina, che quando qualcuno prova ad intimidirmi sorridendo senza scomporsi replica:

"A coso, vedi de fa' meno lo splendido, che con mi' Nonna nun ce so' riusciti manco i nazzisti."

venerdì 6 maggio 2016

Bene Gesserit 2/4

Mi arrendo.
Ho provato a scrivere questo post per settimane e poi, dopo averlo scritto, riscritto, allungato all'inverosimile, modificato in tutti i modi, ci ho riflettuto e sbam! Ho cancellato tutto per scrivere al suo posto qualcosa di completamente diverso.

Questo post doveva essere dedicato ad una suora (non la mia maestra, ma ad un'altra suora che deteneva un ruolo direttivo nella scuola dove ho studiato da piccola) che fondamentalmente per diversi anni mi ha favorito incoraggiandomi negli studi. E scoraggiandomi a perdere tempo in tutto quello che immagino ritenesse collaterale e vagamente frivolo come i corsi di pittura o musica. Ho sempre dato per scontato che l'abbia fatto perché, come manifestava, fosse convinta che grazie alle mie capacità intellettive io fossi in grado perseverando di realizzare qualcosa di sostanziale, di "serio".
Mentre scrivevo, mi sono resa conto che per me lei ha rappresentato un simbolo, il simbolo della risposta costante che ho ricevuto dal mondo ogni qual volta ho manifestato la tentazione di seguire per così dire, strade collaterali. Ovvero: "Sei sprecata per baloccarti con queste sciocchezze: invece studia/lavora seriamente e vedrai cosa riuscirai a fare."

Tagliando e ricucendo inutilmente questo povero post, mi sono resa conto di alcune cose inedite e importanti per me.

Intanto, che così come è estremamente arduo dipingere qualcosa che non hai mai visualizzato, è ugualmente un'impresa titanica e frustrante tentare di scrivere riguardo un'idea che non hai ben chiara.

Poi il fatto in sé, ovvero che, anche se del tutto fuori tempo, un concetto cardine della mia vita non mi è ancora chiaro, e penso che questa sia una situazione che dovrebbe essere evitata e possibilmente prevenuta.

In cosa consisterebbe questa Situazione Incresciosa?

Ho trascorso la maggior parte della mia vita sognando di potermi dedicare a degli studi artistici e poi ad un'attività creativa.
Non è stato così e ho trascorso molti anni, quand'ero più giovane, a rimuginare dentro di me sulle possibili versioni mancate del mio passato. Perché tutti mi avevano tarpato le ali? Perché non avevo studiato arte? Perché non ero un'orafa, una pittrice, un'artista? Perché non vivevo una vita bohémienne nella mia mansarda immaginaria col terrazzo fiorito fra i tetti? 

Negli anni la rabbia adolescenziale si è dissolta, lasciando il posto ad una valutazione più salutare del presente e della realtà oggettiva. Assolvendo gli altri, senza rendermene conto credo di aver assolto me stessa e mi sono ritrovata ad essere una persona inaspettatamente serena.

Eppure volendo applicare una rigorosa autoanalisi, mi rendo conto di non avere gli strumenti per avere una visione chiara e poter tracciare un quadro nitido del confine fra scelte e involontarietà.

Pur essendo consapevole della mia incompetenza (soprattutto in ambito grafico), sono perfettamente felice quando posso creare qualcosa o scrivere. Eppure non possiedo quella brama. la smania che hanno descritto tanti artisti: mi ci dedico raramente, con una sorta di indolenza, anzi spesso proprio con il gusto di aver rimandato il più possibile ed elaborato solo mentalmente.

Sono consapevole della mia incompetenza, ma non mi sono mai iscritta ad un corso di arte in vita mia, pur potendolo fare. E a tale proposito oggi mi chiedo seriamente: ho mai provato realmente  (come tante volte in passato ho immaginato di aver fatto) a chiedere ai miei genitori di fare il liceo artistico?  Ho mai tentato, lottato o solamente sognato e recriminato?

Ho seguito solo un corso di scrittura creativa, ed è stato per concludere quasi subito: che orrore! Il top credo di averlo raggiunto quando mi sono ritrovata io a tenere una lezione di scrittura creativa all'Università di Roma III: ho finito per parlare di gestione di qualità aziendale e attività di verifica (e sono quasi certa di aver detto ad un certo punto: "Ma ora invece parliamo di un argomento che potrebbe effettivamente servirvi  a qualcosa...").
Ho scritto con impegno solo ed esclusivamente su commissione le cose più eterogenee, unicamente quando sono stata pagata per farlo (a onor del vero una volte è stato gratis, ma era un premio letterario che comunque ho vinto, e poi dopo la premiazione al buffet c'erano un sacco di sconosciuti che mi hanno detto tante cose carine, per cui la considero una eccezione ammissibile). Conoscendomi (e per averlo già fatto), so che è così che concepisco la faccenda: se fosse un mestiere mi metterei ogni giorno al pc e scriverei l'esatto numero di cartelle richieste, nel miglior modo a me possibile.

A tale riguardo, un chiaro indizio del mio disagio interiore è che quando qualcuno mi dice che il suo sogno è di diventare uno scrittore, non riesco a non reagire con una sorta di raggelato imbarazzo, come se mi avesse appena confidato, che so, di dedicarsi alle pratiche copro-fetish-sado-maso di gruppo e in aggiunta chiesto giulivamente cosa facciamo io e mio marito venerdì sera, casomai ci volessimo unire (in tutti i sensi). Il che è una reazione del tutto irrazionale, anche considerando quanto spesso mediamente capita questa cosa, tant'è che pur essendomici impegnata a rielaborare con la Parte Migliore di Me (quella poveretta che mi sgomita continuamente nel costato ripetendomi: Non fare la stramba ed empatizza con i bipedi umani!) l'unica emozione che riesco a manifestare è puro imbarazzo, come di fronte ad un'esternazione di impudicizia, e va da sé che il problema dev'essere mio.

Credo di avere questo atteggiamento manicheo fra totale cazzeggio o assoluto mercantilismo perché sono terrorizzata dal rischio di cadere nel velleitarismo.

In me c'è ben radicata la voce del cinismo di Giulio, il personaggio della Famiglia di Ettore Scola:
"Il babbo non sapeva dipingere, tu non sai cantare: una famiglia d'artisti."

Forse è perché ho dei criteri troppo elevati. Nonostante allora i soldi m'abbiano fatto comodo, dopo anni provo ancora un reale rimorso al pensiero che i miei siano stati stampati sacrificando alberi esattamente come per i libri della Yourcenar (molti, molti ma molti di meno, ma erano pur sempre bellissimi alberi).
Forse mi hanno ripetuto talmente tante volte di non baloccarmi in sciocchezze e concentrarmi nelle cose serie, che se avessi voluto "fare arte" a tempo pieno, avrei dovuto studiare arte anni ed anni in modo canonico e rigoroso per poter essere convinta di avere licenza di farlo. Non sarei voluta mai essere niente di meno che un poeta laureato.

Ci sono persone che hanno fatto così e che hanno dedicato all'arte completamente sé stesse.
Ammiro l'entusiasmo degli artisti che riconosco come tali, ma d'altra parte mi causa una reale apprensione, una nausea per empatia, come se li vedessi volare infinitamente su delle montagne russe senza cinture di sicurezza. Non credo che io avrei mai sopportato la soggettività, il fatto di essere oggetto del giudizio altrui; il dover cercare, sperare, il non avere certezze; l'insuccesso.

Non so se sarei mai stata felice senza ordine e chiarezza, nonostante la possibilità estesa di dedicarmi a creare.

Non so, forse.

Non so bene cosa sia successo ai miei sogni, temo.
Non sono in grado di capire se ho fatto delle reali scelte o mi sono adattata al meglio a ciò che ci si aspettava da me.
So che alla fine ho fatto una scelta di buon senso contando sugli elementi positivi che mi sono ritrovata per costruire la mia felicità, anziché rimpiangere quello che non avevo.
So però quello che ho fatto, d'istinto, coi miei figli.

Non gli ho mai detto che erano troppo intelligenti per non fare altro che cose serie.
Gli ho detto sempre, semplicemente: "Scegliete accuratamente ciò che desiderate, fate ciò che desiderate e poi in quella cosa, qualsiasi essa sia, impegnatevi seriamente."
Beninteso, non disegnano né scrivono. Percuoterei duramente i genitori che spediscono i figli a realizzare i propri sogni.
Hanno scelto strade molto diverse. Hanno studiato molto per realizzare ciò che desiderano.
Sono competenti e appassionati.
Se riusciranno a realizzare ciò che hanno desiderato e scelto, come io spero ogni giorno della mia vita, sarà fantastico.
In ogni caso, confido nel fatto che dovunque saranno arrivati fra vent'anni, sapranno vedere e tracciare con chiarezza la strada che li ha portati fino a quel punto.

giovedì 3 marzo 2016

Bene Gesserit 1/4

Qualcuno dopo il mio ultimo post m'ha fatto notare che quando affronto il tema degli affanni e le angosce procurati dagli "altri", puntualmente sembro diventare un po' frettolosa, per non dire superficiale, come se il problema fosse del tutto irrilevante o comunque non mi riguardasse affatto.
E, SE il problema non mi riguarda, non è che piuttosto io sono una di quelle persone che affanni & angosce li cagiona, piuttosto che doversene preoccupare?

Il fatto che neanche questo dubbio mi preoccupi aggrava la mia posizione?

A peggiorare la situazione, intanto mi viene da replicare che uno dei miei motti preferiti da sempre è: "Never explain, never complain".
Non approvo in generale il fatto del dare giustificazioni. Però mi piace spiegare le cose, soprattutto se mi dà l'occasione di illustrare un concetto che mi è davvero molto caro.

Io sono stata educata da una serie di donne.
Provengo da una famiglia dove fino alla mia generazione c'è stata una maggioranza femminile schiacciante e giusto il minimo biologico di uomini per riprodursi. Una famiglia fatta di generazioni di sorellanze, alleanze fra donne. Una famiglia costituita da esseri con le aree cerebrali deputate al linguaggio sovrasviluppate, alle quali quindi risultava semplice esprimere tutte tutto l'amore o tutto l'odio del mondo senza parlare mai d'amore o d'odio.

La prima donna che ha influenzato la mia vita e di cui vorrei raccontare è stata mia nonna Marina.

Il mio bisnonno Alceste, primario chirurgo al Fatebenefratelli di Roma, aveva chiamato le sue due figlie molto dannunzianamente Silvana e Marina. 

Quello ben mascherato che opera è il mio bisnonno

Quando Marina aveva undici anni in vacanza d'agosto con la sorella avevano visto la madre uscire per andare a prendere il padre alla stazione e non tornare mai più, fulminata da un ictus per la strada.
Nonostante il dramma della perdita prematura della propria amatissima moglie, Alceste era un uomo per natura dedito alla propria ed altrui felicità, così crebbe da solo le ragazze nell'unico modo che conosceva: più allegramente possibile. Balli, ricevimenti a corte, concorsi ippici: a quanto pare, nel giro di qualche anno le ragazze svilupparono uno charme incredibile, e Alceste una serie di debiti alle corse altrettanto impressionante.

Fotina di Nonna e Zia. La Zia è l'ultima a DS. Chi mi conosce bene, lo capisce chi è mia Nonna.

Così, per evitare la rovina (le malelingue dicono anche un duello con l'archiatra pontificio per via di una frequentazione un po' troppo intensa della di lui moglie) Alceste partì per il Brasile e lì si addentrò nell'Amazzonia. Da ottimista e uomo solare, riprese in mano con energia il proprio destino con il progetto di ottenere fama e fortuna e quindi poter richiamare a sé le figlie: creò dal niente una condotta profondendo tutte le proprie energie nel curare tantissime persone che spesso vedevano un medico per la prima volta in vita loro. In pochi mesi poté disporre di una casa propria, un calesse a due cavalli e una piccola clinica.
Un banalissimo ascesso in gola, incurabile visto che lui era l'unico medico nel raggio di centinaia di chilometri, lo uccise nel 1925, a 54 anni. Alle figlie arrivarono le foto del suo funerale, dove si erano assiepate grate le tante persone che aveva curato, e quella della sua tomba bianca ad Anta Gorda.

Le ragazze vivevano nel nuovo quartiere Prati con gli zii. Diventate orfane, Marina dovette cominciare a lavorare: prima in Conservatoria, poi da un vecchio Notaio.
Silvana si sposò e si trasferì con suo marito a Salerno, dove morì anch'essa prematuramente.

Sono stata la prima figlia dell'unico figlio di Marina, l'unica di cui si sia realmente interessata.
Era una donna alta, di un'altezza superiore alla media che mi dispiace non aver ereditato, e con dei denti abbastanza cavallini che sono assai lieta di non aver ereditato. Da lei ho preso il viso allungato con gli zigomi alti e ossa sottili, per cui non mi lamento.

Nei miei ricordi, la paragono alla statua di una dea greca, una kore. Era altera.
Alle altre donne della mia famiglia, la rappresentanza ben più numerosa da parte materna, non piaceva: la trovavano snob e malevola. Io come tutti i bambini ero acritica. Di sicuro era una donna solitaria alla quale non pesava minimamente d'esserlo. Anzi.
Non ricordo di averla mai vista fare faccende di casa o cucinare. Cucinava mio nonno.

Erano davvero una strana coppia. Mio nonno era un commercialista nato a Trastevere. Estroverso, pieno di amici, sportivo, pieno di interessi. Sboccato come solo certi romani possono esserlo.
Mi ricordo che senza alcuna remora, con mia nonna presente (e in particolar modo credo quando lei aveva detto o fatto qualcosa che lo aveva irritato), ripeteva a me bambina:
"Questa donna non mi piaceva. Per niente! L'ho conosciuta e ho pensato "che brutta", capisci? Solo che mi intrigava, mi attizzava tantissimo! E quindi m'è toccato sposarmela!"
E lei puntualmente non replicava nulla, e se sorrideva appena lo faceva come osservando un cucciolo che rientrando dal giardino ti infanga tutto il salotto. 

Lei passava moltissimo tempo a leggere (preferibilmente, gialli) e giocare a carte. Adorava il bridge.
Si faceva cucire i vestiti a mano e mi lasciava giocare per ore con i suoi gioielli e la sua fantastica biancheria di seta, riposta dentro un comò antico di legno intagliato. 
Ricorderò per tutta la mia vita le ore di divertimento passate ad infilarmi dentro quel mobile, le cui pareti di vetro foderate su tre lati di raso di seta rosa antico plissè per me diventavano le quinte di un teatro magico dove potevo mascherarmi in mille modi.
A casa dei miei nonni non c'era nulla che fosse "non adatto ad un bambino". 
D'inverno mio nonno scriveva memorie, poesie in romanesco e dipingeva: io dormivo in una stanza le cui pareti erano completamente ricoperte dai sui quadri, fino all'altezza del soffitto, e da una libreria che allora mi sembrava enorme e alla quale avevo accesso completo. Il mio primo paradiso.
Ricordo con lo stesso innamoramento il quadro di San Giorgio e il Drago in salotto e l'edizione integrale de Le Mille e una Notte con in copertina un cielo stellato blu profondissimo realizzato in foglio d'oro e polvere di lapislazzuli, che mi turbava l'animo e colorava indelebilmente la punta delle dita.

Ricordo questa cosa, chissà perché.
Ero lì che giocavo con i colli di pelliccia di mia nonna (ebbene sì, lo ammetto: da bambina NON avevo ancora una coscienza animalista), le sottovesti di seta, i pizzi e quant'altro, quando le chiesi: "Nonna, posso farmi vedere da tutti così? Posso uscire in terrazzo??"
NON mi sembrava educato. D'altra parte avevo i capelli boccolosi e color cocker spaniel, e considerando tutti i complimenti che ricevevo in spiaggia e a passeggio, dovevo aver capito con la furbizia e la vanità dei ragazzini che sotto il sole facevo la mia figura.

Ricordo che mia nonna mi rispose seria: "Certo che lo puoi fare. Quello che non puoi fare è preoccuparti di mostrarti come sei. E tu sei meravigliosa."

Per tutta la sua vita, mia Nonna ha tenuto le foto dei propri genitori e di sua sorella sul comodino accanto a sé. Me ne parlava come di persone fantastiche, con affetto infinito, illuminandosi mentre ripensava a loro, ma mai con tristezza. Quelle stesse foto ora ce le ho io accanto a dove dormo:  mi ispirano amore.

Mia Nonna è morta a causa di un ictus come sua madre, ma a 74 anni, nel 1982, il 14 febbraio.
Stava andando a pranzo quando semplicemente è caduta ed era morta, senza clamore, il che mi sembra del tutto coerente con lei.
Ogni tanto se a San Valentino ho la tentazione di diventare triste ripensando a lei, riesco ancora ad immaginare allo sguardo che mi invierebbe, quindi desisto immediatamente.

Mia nonna mi ha insegnato che l'insicurezza è una cosa inelegante. E viceversa. 
Che risultare simpatici agli altri non è un valore di per sé.
Che leggere e poter soddisfare la propria curiosità intellettuale è importante.
Mi ha insegnato a circondarmi solo di cose belle e non derogare: meglio nulla, anziché ciò che non ti piace.
Soprattutto, mi ha insegnato per prima e da subito che tutto passa; che si può perdere tutto e tutti. 
Quindi è assolutamente importante godersi il presente e la felicità finché ci sono.

venerdì 26 febbraio 2016

Istruzioni all'Uso del Mondo

Questo blog (come qualsiasi altro) dispone di un basilare strumento di statistiche.
Da ciò apprendo che i due post più letti in assoluto sono:

I Mangiatori di Energia 
L'Arte di avere ragione

e questo mi procura davvero una sanguinosa delusione.
In pratica, l'incontrovertibile logica dei numeri conferma ciò che temevo, ovvero che la gente googla l'altrui Verbo nella speranza di ottenere Risposte ai Problemi Universali.

Chiariamo un punto fondamentale. Io non scrivo per cercare di fornire Risposte ai Problemi Universali. Se ogni tanto ho affrontato alcuni temi generali, spero di averlo fatto in un modo tale per cui confido vivamente che i googlatori siano rimasti delusi tanto quanto me, non trovando nessuna Risposta.

QUESTO blog non punta a produrre una di quelle brillanti paginette di psicoterapia internettiana che leggendo ci si sente compresi e confortati e poi si spamma ai propri amici sui social commentando guarda Giuditta ohsìsì, è proprio così che funziona, ma è per precisa scelta la faticosa e velleitaria espressione del mio personalissimo pensiero; l'esposizione di considerazioni arbitrarie e parziali, la rievocazione di ricordi dei quali, francamente, sono del tutto consapevole che possa non fregare niente a nessuno.

Vivaddio. Eppure chi mi conosce dal vivo, lo sa quanto aspiro all'impopolarità.

E giusto per rafforzare il concetto, lo corroboro subito con una spiegazione non richiesta.

Facciamo un esempio pratico.

Sto pensando ancora moltissimo a David Bowie. Non solo sento quasi del tutto musica sua, ma guardo molti video e leggo vecchie interviste. 
Una sua affermazione che mi ha colpito è stata: "I can't think of a time that I didn't think about death."
E io, da piccolo raggio di sole quale sono, mi sono riconosciuta del tutto in questo.
Non riesco a ricordarmi un giorno della mia vita da adulta in cui io non abbia pensato alla morte.

Ogni sera, dopo cena, io esco in terrazzo e mi fumo mezza sigaretta
Fumo da quando ero adolescente e credo di essere allergica al fumo, perché anche se le spengo regolarmente a metà, una ridicola mezza sigarettina slim è sufficiente a farmi girare la testa. Giuro, è tabacco. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, sono al mentolo.
Fumo e se non è nuvoloso guardo sempre le stelle, e penso ogni volta che loro stanno lì da sempre, da prima che io nascessi e ci saranno dopo, e se ne fregano di noi, e provo un vago senso di gratitudine per questo. Sono incredibilmente affezionata al cielo stellato.

Regolarmente, mentre guardo le stelle con la testa che mi gira, penso che prima o poi potrei restarci, morire per colpa di quella stupidissima mezza sigarettina alla menta e allora quello che sto pensando  potrebbe essere il mio ultimo pensiero; la parola che sto pensando in quel momento, l'ultima parola elaborata dalla mia mente di fronte all'universo meraviglioso e indifferente.
Quindi immediatamente cerco di non pensare cazzate.

E allora chiudo gli occhi e mi riempio di pensieri d'amore. O anche di cose incredibilmente divertenti.
Quello è uno dei momenti più belli della mia giornata.

Ogni giorno della mia vita da adulta credo di aver pensato che un giorno morirò.
Morirò e quel giorno per me sarà la fine del mondo. 
Non ho mai creduto nel Paradiso. Quando ero piccola sognavo che se fossi stata buona avrei potuto scegliere cosa fare dopo la vita, e avrei scelto di poter vagare come uno spirito nel tempo e nello spazio e poter vedere tutto, sapere tutto. Ora so che non è possibile.
Io morirò e dopo succederanno tantissime altre cose: verranno nuove scoperte, nuove mode, nuova musica, ma non per me. Non vedrò mai più nulla. Nasceranno nuove persone e tutte le persone che amo e conosco moriranno come me, finché del ricordo di me non resterà nulla di nulla. 

E secondo voi, con questa prospettiva, quanta importanza posso aver dato nella mia vita a problemi come "I Mangiatori di Energia"? o "Prevalere sugli altri"? No, davvero?

Sapete cosa mi interessa davvero? Mi interessa molto di più scrivere cose come che mio nonno Giorgio si chiamava così perché suo padre era il maggiordomo di George Wurts, il miliardario americano proprietario di Villa Sciarra, e che per questo lui è nato e cresciuto a Palazzo Mattei a Roma. Che prima ancora, il mio bisnonno era maggiordomo di John Pierpont Morgan che lo portò con sé nei propri viaggi e cercò in tutti i modi di convincerlo a trasferirsi in pianta stabile in america. La mia famiglia ha una storia bellissima. E' interessante, mi commuove e mi fa venire in mente il discorso del Dottor Manhattan su Marte.
Pensando a Marte, ripenso a David Bowie. E così io percepisco il miracolo della Bellezza.

Sono innamorata delle stelle come perfetta immagine di bellezza e remota indifferenza.
Scrivendo e dovendo scegliere fra dita e lune, anziché utilissimi e popolari tutorial di manicure preferirò sempre teatrini da bambini con pianeti di carta ritagliata e stelle di stagnola. 

Tutta la bellezza, la ricchezza che ho visto e capito del mondo è fatta come un caleidoscopio dei tanti frammenti colorati che ho raccolto: storie, idee, musiche, poesie, sentimenti, visioni.
Questo è tutto ciò che sento di possedere e credo di poter dare.

Non aspiro a offrire certezze: mi impegno tutti i giorni giusto perché la mia ultima parola non sia proprio una cazzata. E probabilmente se ci riuscirò o meno lo saprò solo io.

Il resto è lavoro per psicoterapeuti, cartomanti, o magari semplicemente per l'esperienza.

giovedì 11 febbraio 2016

Non so / Non ricordo

Nelle ultime settimane ho dato una mano a mio figlio maggiore per gli aspetti formali (ovvero i più noiosi, come l'impaginazione e la bibliografia) della sua tesi di laurea.

Visto che si sta specializzando in Criminologia, si tratta di una tesi sperimentale in neuroscienze sui bias della memoria nella testimonianza, ovvero per spiegarla grossolanamente, come la gente pur essendo convintissima di aver assistito ad un fatto, in determinate circostanze può toppare di brutto.

I laureandi hanno girato dei video dove, ad esempio, sembra che gli attori stiano per fare alcune azioni (ma NON le compiono effettivamente). Facendo vedere queste scene ai soggetti dell'esperimento ed interrogandoli dopo un po' di tempo, visto che la mente mente e a quanto pare si semplifica la vita riportando i ricordi a dei modelli coerenti e conclusivi, gli stessi soggetti (sper)giuravano di aver visto compiere quelle azioni.

Così, intanto sappiate che quelle creature che fino a ieri giocavano con le macchinine nella loro cameretta è bastato un niente perché oggi siano nelle aule universitarie a escogitare nuovi e scientifici metodi per ingannare il genere umano, ma poi, casomai vi servisse un'ulteriore conferma, che non potete fidarvi della vostra memoria.

Io per esempio ne sono certa da sempre e spero di averne fatto una virtù professionale.
Da una parte invidio le persone alle quali chiedi un'informazione e cominciano a snocciolarti risposte anche relative a diverse anni prima con la disinvoltura di un computer; dall'altra non ho mai superato la diffidenza dei processi che si basano sulla memoria individuale (che può essere influenzata dalle opinioni), anziché sulle evidenze oggettive, e comunque valutando il mondo col mio grado di attendibilità (sotto lo zero), mi sono organizzata per non dover fare affidamento né su di me né su nessuno, raccogliendo, conservando, gestendo ed organizzando i dati nella maniera più efficiente possibile. I dati mi piacciono molto più delle parole. Mi piacciono le cose così come sono.
In pratica, non avendo testa, ho optato per avere un hard disk (e ottimi sistemi di backup).

Sinceramente non ricordo come facessi prima dell'avvento dei pc. Forse ero più giovane e meno smemorata. Forse mi segnavo le cose a mano. O forse semplicemente avevo meno cose da ricordare.
Quello di cui sono certa, è che ho una memoria senz'altro selettiva e partigiana. E decisamente noncurante.
Quando mi imbatto in qualcuno che con puntiglioso risentimento mi ingaggia per enumerarmi dei torti (non parlo di rapimenti o massacri del villaggio natio, ma ad esempio delle ricorrenti frecciatine della suocera, magari ormai abbondantemente defunta) subiti anni addietro, mi tocca fingere empatia mentre sopra di me si forma il fumetto del pensiero:
"Ma come c****o fai a ricordarti ancora di certe cose?"
Io da iraconda lo so: affronto le contrarietà in modo rapido e virulento, buttando fuori tutta la negatività immediatamente. Lascio che il bubbone esploda e dolga quanto deve. Come la peste nera, ammettiamolo.
Dopodiché però metto sulla ferita risanata un cerottino con su scritto "whocares", e me ne dimentico.

Più che dimenticarmi, perdo interesse, che probabilmente è anche più efficace.

Ammetto senza pudore di considerare spesso il passato più in quanto risultato della storia che ci ho ricavato: una storia funzionale che deve star lì neutra, a fare da base inerte al presente, che è ciò che mi interessa davvero.

Lì dentro ci sono, come per tutti, gioie e dolori, ovvero esperienze e come tali ogni tanto le rianalizzo, ma sono a catalogo, lì, nel passato.

Stamattina un mio collega mi ha chiesto allegramente: "Tu cosa facevi da adolescente?"
E vabbé, sarà anche che non avevo ancora preso il caffé, ma per risposta ha ricevuto uno sguardo equivalente a "Mi bucavo e prostituivo allo Zoo di Berlino."
Per i più sagaci: "Impiccati con l'amarcord."

Parlando con mio figlio della fallacia della memoria, lui mi ha detto:
"La cosa essenziale da capire è che la memoria è influenzata dalle emozioni."
E' così. Ho capito che l'unica risposta che ho alla domanda di stamattina è: "Studiavo, avevo amici, mi divertivo. Non capivo niente." O che ho archiviato il decennio dai 30 ai 40 con un: "Uh, che stress!"

Poi inevitabilmente non ho potuto non pensare ai cyborg.

Casomai non risultasse chiarissimo il nesso, è doveroso da parte mia specificare che per me tre cose sono le più belle al mondo: i gatti, gli alberi e i cyborg.
Ok, i cyborg non esistono ancora, ma io ho una buona immaginazione e li immagino bellissimi.
Ne consegue che penso piuttosto spesso (e volentieri) a queste tre cose e può capitare che entrino in parecchi dei miei ragionamenti.

Un cyborg teoricamente avrebbe una memoria esatta. Si ricorderebbe tutto.
Ricorderebbe tutti i momenti ingloriosi degli altri, esattamente.
Beccherebbe tutte le incoerenze, quindi tutte le bugie.
Non costruirebbe un'immagine consolante o migliorativa né di sé né della realtà.
Non commetterebbero mai due volte lo stesso errore.
Si ricorderanno ogni momento della propria esistenza, ogni istante vissuto, ricevendo ed elaborando ogni sensazione, ogni immagine, ogni informazione dal mondo e dagli altri così come è.

Più ci penso, più li adoro, ma non so quanto staranno simpatici al resto del mondo.


venerdì 22 gennaio 2016

Viaggiare leggeri

Se non fossi consapevole del fatto che si tratta di una domanda di pura cortesia, alla domanda: "Come stai?" attualmente la mia risposta sincera sarebbe:
"Guarda, dopo un'infanzia strana, una gioventù per lo più inconsapevole, dei trent'anni dove sono stata la mia peggior nemica e un inizio di quaranta dove ho avuto ancora isolati strascichi di autolesionismo, incredibilmente da un paio d'anni sono piuttosto soddisfatta del mio comportamento. Riesco a fare scelte migliori, riflettere e vedo dei buoni risultati in tutti i campi della mia vita."

Cosa è successo?
Sostanzialmente, sono andata per difetto.
Nel senso che, anziché cercare cose migliori, ho puntato a liberarmi delle cose negative.
Ha funzionato benissimo.
C'era un sacco di ciarpame nella mia vita che mi appesantiva. Idee, convinzioni, attitudini.

L'altra sera prima di cena scorrevo dei commenti su facebook (contrariamente all'idea dell'immaginario collettivo non ho l'abitudine di portare il mio smartphone al bagno - sia per motivi igienici sia perché lì preferisco passare il tempo conversando con le gatte - così i 4 eroi che mi leggono ora sanno di ricevere eventuali post da un luogo presentabile) e leggevo delle opinioni decisamente contrarie alle mie su un argomento che non citerò, ma sul quale sapevo di poter intervenire con competenza e cognizione di causa.

Ora: non so se abbiate visto Inside Out, ma proprio come in quel film potete immaginare il mio conflitto interiore impersonificato da 2 figurine che si agitavano dentro la mia testa.

Il primo, che potremo tranquillamente chiamare L'OminoIncazzoso, era già lì, con l'ascia bipenne affilata, aggrappato alla rete dei neuroni come alle transenne di una curva di ultrà.
L'OminoIncazzoso assomiglia moltissimo a Cirillo, il pupazzo a forma di demonietto al quale mia Madre era teneramente affezionata. E' tutto rosso. Ha un gonnellino nero tipo highlander infernale con una bretella sola e un corno spuntato. Avrebbe un aspetto decisamente badassico, se non fosse un essere immaginario di dimensioni microscopiche. Io e l'Ominoincazzoso siamo amiconi e compagni di battaglie e baldorie fin dalla mia prima infanzia. 

"Vaivaivai che a questi mò gli famo il culo!"
(va da sé che l'OminoIncazzoso attinge a tutto l'idioma natìo di Mamma Roma)

Lì accanto, c'era SeiStataBrava.
SeiStataBrava è una donnina di mezza età che si è puppata un sacco di libri, e non solo i testi fondamentali del buddismo, ma molti altri. E' piccola, rotondetta e indossa una mise bianca a metà fra la tunica Jedi e (sospettosamente) un pigiama. Non è di molte parole, però m'ha tenuto compagnia in molte occasioni. Per esempio quando da ragazza passavo ore a far addormentare i miei figli piccoli, o negli anni successivi quando ero stanca morta ma continuavo a lavorare, o quando m'è capitato di trascorrere del tempo accanto a persone a cui volevo bene per curarle o aiutarle. Ogni volta, alla fine, l'ho sentita lì accanto a me, sorridente. 
Spesso però le è capitato di subire dall'OminoIncazzoso, che è sempre stato decisamente più vivace, divertente e convincente di lei. Tante volte dopo che avevo affrontato, insultato a sangue, atterrato  qualcuno scambiando infine un trionfale cinque alto col mio piccolo guerriero, l'ho vista ritirarsi in silenzio portando negli occhi la domanda che però l'altra sera ha avuto voce per farmi.

"Servirà a qualcosa?"

La mia esitazione e il mio sorriso sono bastati ad entrambi per capire.

"Stai davvero a da' retta a sta' cretina?! Sei diventata 'na smidollata,'na poveraccia, 'na vecchia!"

"Senti, sai che facciamo? Mo andiamo a preparare la cena. Così ti faccio usare quel coltello giapponese di ceramica che ti piace tanto. E magari più tardi ci vediamo anche un paio di video di haka maori. Ma solo se fai il bravo."